150° anniversario della fondazione della Prima Internazionale

La fondazione dell’Internazionale

di Franz Mehring -
(da Vita di Marx. Una biografia rivoluzionaria, Shake Edizioni 2012)
Qualche settimana dopo la morte di Lassalle, il 28 settembre, 1864, in un grande meeting in St. Martin’s Hall, a Londra, fu fondata l’Associa-zione Internazionale degli Operai.
Non era opera di un singolo, non era un « piccolo corpo con una grossa testa », non era una banda di congiurati senza patria; non era né una vana ombra né un mostro spaventoso, come asseriva, con grazioso avvicendarsi, la fantasia degli araldi capitalisti punta da cattiva coscienza. Corrispondeva piuttosto a uno stadio transitorio della lotta di emancipa-zione del proletariato, e la sua essenza storica determinò tanto la sua necessità quanto la sua transitorietà.
Il modo di produzione capitalistico, che è in se stesso contraddittorio, genera gli Stati moderni e insieme li distrugge. Accentua al massimo i contrasti nazionali, ma trasforma anche tutte le nazioni secondo la propria immagine. Sul suo terreno questo contrasto è insolubile, e per causa sua sempre ha fatto fallimento la fratellanza dei popoli tanto proclamata e de-cantata dalla rivoluzione borghese. Mentre predicava libertà e pace fra le nazioni, la grande industria faceva di questo mondo un campo di battaglia quale nessun periodo precedente della storia aveva mai visto.
Ma al modo di produzione capitalistico è strettamente unita anche la sua contraddizione interna. Senza dubbio la lotta di emancipazione del proletariato può svilupparsi soltanto sul terreno nazionale: poiché il processo di produzione capitalistico si compie all’interno di barriere nazionali, ogni proletariato si trova anzitutto di fronte alla propria borghesia. Ma il proletariato non soggiace alla lotta inesorabile della concorrenza, che prepara una fine così rapida e repentina a tutti i sogni di libertà e di pace internazionale della borghesia. Appena gli operai comprendono che devono far cessare la concorrenza nelle loro stesse file, per opporre una resistenza efficace al dominio del capitale (e questo lo comprendono appena si desta la loro coscienza di classe) resta ormai solo un passo per arrivare alla cognizione più profonda che anche la concorrenza fra le classi operaie dei diversi paesi deve cessare, e anzi è necessario il loro comune concorso per infrangere il dominio internazionale della borghesia.
La tendenza internazionale si affermò quindi assai presto nel movimento operaio moderno. Ciò che l’intelletto borghese, barricato nel suo interesse economico, non poteva interpretare che come sentimento anti-patriottico e mancanza di istruzione e di intelletto, non era altro che una condizione vitale della lotta di emancipazione del proletariato. Ma se questa lotta può e deve risolvere anche il dissidio fra tendenza nazionale e internazionale, nel quale si contorce eternamente la borghesia, non per questo essa dispone di una bacchetta magica, per trasformare la sua ascesa aspra e dura in una strada piana e facile. La classe operaia moderna lotta in condizioni che le sono imposte dallo sviluppo storico, che non possono essere oltrepassate di slancio con un assalto violento, ma solo esser superate attraverso la loro comprensione, nel senso del motto hegeliano: comprendere significa superare.
Questa comprensione fu resa estremamente difficile dal vario coincidere e sovrapporsi degli inizi del movimento operaio europeo, in cui subito si espresse la sua tendenza internazionale, con la costituzione di grandi Stati nazionali, creati proprio dal modo capitalistico di produzione. Poche settimane dopo che il Manifesto comunista ebbe proclamato l’unità d’azione del proletariato in tutti i paesi civili come presupposto indispensabile per la sua emancipazione, scoppiò la rivoluzione del 1848, che in Inghilterra e in Francia mise già di fronte borghesia e proletariato come potenze nemiche, ma in Germania e in Italia fece divampare soltanto lotte d’indipendenza nazionale. E’ vero che allora il proletariato con la sua partecipazione attiva riconobbe, com’era perfettamente giusto, che queste lotte d’indipendenza, se non erano affatto il suo fine ultimo erano però una tappa verso di esso; il proletariato dette ai movimenti nazionali in Germania e in Italia i combattenti più coraggiosi, e questi movimenti non hanno mai ricevuto suggerimenti migliori di quelli della Neue Rheinische Zeitung, che era pubblicata dagli autori del Manifesto comunista. Ma la lotta nazionale naturalmente ricacciò indietro l’idea internazionale, soprattutto quando in Germania e in Italia la borghesia cominciò a rifugiarsi sotto la protezione di baionette reazionarie. In Italia si organizzarono società operaie di mutuo soccorso sotto la bandiera tutt’altro che socialista, ma almeno repubblicana, di Mazzini, e nella più progredita Germania, dove gli operai già dai tempi di Weitling non erano ignari dei legami internazionali della loro causa, si arrivò a una decennale guerra civile, appunto a motivo della questione nazionale.
Diversamente stavano le cose in Francia e in Inghilterra, dove l’unità nazionale era da lungo tempo assicurata quando cominciò il movimento proletario. Qui l’idea internazionale era molto vitale già prima del quarantotto : Parigi era considerata la capitale della rivoluzione europea, e Londra era la metropoli del mercato mondiale. Eppure anche qui, dopo le scon-fitte del proletariato, l’idea internazionale perse più o meno terreno.
Lo spaventoso salasso della battaglia di giugno paralizzò la classe operaia francese, e la ferrea oppressione del dispotismo bonapartista impedì la sua organizzazione, tanto sindacale che politica. Essa ricadde nella confusione prequarantottesca delle sette, donde emersero con più chiarezza due tendenze fra le quali in certa misura si ripartiva l’elemento rivoluzionario e l’elemento socialista. La prima tendenza si ricollegava a Blanqui, che non aveva un programma propriamente socialista, ma voleva conquistare il potere politico mediante il colpo di mano di una minoranza decisa. L’altra tendenza — ed era incomparabilmente la più forte — era sotto l’influenza ideologica di Proudhon, che con le sue banche di scambio per istituire un credito gratuito e simili esperimenti dottrinari si allontanava dal movimento politico; di questo movimento Marx aveva già detto, nel Diciotto brumaio, che esso rinunciava a trasformare il vecchio mondo coi grandi mezzi collettivi che gli erano propri, e cercava piuttosto di conseguire la propria emancipazione alle spalle della società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine condizioni d’esistenza.
Uno sviluppo per molti aspetti simile si compì nella classe operaia inglese dopo il fallimento del cartismo. Il grande utopista Owen viveva ancora, in età molto avanzata, ma la sua scuola si insabbiò nei problemi della libertà del pensiero religioso. Inoltre sorse il socialismo cristiano dei Kingsley e Maurice il quale, quantunque non vada messo in un sol fascio con le sue caricature continentali, con tutte le sue aspirazioni culturali e sociali non voleva però saperne di lotta politica. Ma anche le associazioni sindacali delle Trade Unions, per cui l’Inghilterra era più avanzata della Francia, si ostinavano nell’indifferenza politica e si limitavano a soddisfare i propri immediati bisogni, ciò che per esse era facilitato dalla febbrile attività industriale degli anni fra il ’50 e il ’60 e dalla supremazia inglese sul mercato mondiale.
Ma nonostante tutto, in Inghilterra il movimento operaio internazionale non si era assopito che molto gradualmente. Se ne possono seguire le ultime tracce fino alla fine del quinto decennio del secolo. I Fraternal Democrats avevano trascinato la loro esistenza fino ai giorni della guerra di Crimea e anche quando essi ebbero cessato di dar segni di vita sorse un Comitato Internazionale e poi una Associazione Internazionale, che furono soprattutto oggetto degli sforzi di Ernest Jones. Certo non avevano acquistato grande importanza, ma pure mostravano che l’idea internazionale non era del tutto spenta, e che invece sopravviveva in deboli faville che delle vigorose folate di vento avrebbero potuto ravvivare, fino a far divampare in fiamme splendenti.
Le ventate che ebbero questo effetto furono, successivamente, la crisi commerciale del 1857, la guerra del 1859 e soprattutto la guerra civile che era scoppiata nel 1860 fra gli Stati del Nord e gli Stati del Sud dell’Unione nordamericana. Dopo che la crisi commerciale del 1857 aveva inferto il primo duro colpo allo splendore bonapartista in Francia, il ten-tativo di parare questo colpo grazie a una riuscita avventura di politica estera era completamente fallito. La macchina che l’uomo di dicembre aveva messo in moto gli era sfuggita dalle mani da un pezzo. Il movi-mento per l’unità italiana era diventato più grande di lui, e la borghesia francese non si era lasciata soddisfare dai magri allori delle battaglie di Magenta e di Solferino. Per smorzare la crescente arroganza, veniva più che naturale il pensiero di accordare un più largo campo d’azione alla classe operaia; anzi, la possibilità d’esistenza del Secondo Impero dipendeva proprio dal riuscire a tenere in scacco reciproco borghesia e proletariato. Naturalmente Bonaparte non pensava a concessioni politiche, ma sindacali. Proudhon, che negli ambienti operai francesi godeva di un’influen-za relativamente grande, era un avversario dell’Impero, per quanto parecchie delle sue trovate paradossali potessero dar l’impressione del contrario, ma era anche un avversario dello sciopero. Questo però era il punto che sembrava urtare di più gli operai francesi. Nonostante i tentativi di dissuasione di Proudhon e il rigoroso divieto di coalizione, dal 1853 al 1866 non meno di 3.909 operai furono condannati per avere par-tecipato a 749 coalizioni. Il falso Cesare cominciò col graziare i condannati. Poi appoggiò l’invio di operai francesi all’Esposizione Mondiale di Londra del 1862, e anzi non si può negare che abbia realizzato quest’idea ingegnosa in maniera molto più sostanziale di quanto abbia fatto nello stesso tempo l’Unione nazionale tedesca. I delegati dovevano essere eletti dai loro compagni di categoria professionale; a Parigi furono creati 50 uffici elettorali per 150 categorie che in complesso mandarono a Londra 200 rappresentanti; a parte una sottoscrizione volontaria, le spese furono sostenute dalla cassa imperiale e dalla cassa municipale, ciascuna con 20.000 franchi. Al loro ritorno i delegati poterono diffondere per mezzo della stampa dei resoconti particolareggiati, che per lo più andavano parecchio al di fuori del campo professionale. Data la situazione di allora, questo era un affare di Stato, che all’animo presago del prefetto di polizia di Parigi strappò la lagnanza che piuttosto di darsi a scherzi di questo genere l’imperatore doveva abolire il divieto di coalizione.
In realtà i lavoratori non manifestarono al loro interessato benefattore la gratitudine che pretendeva, ma soltanto quella che si meritava. Alle elezioni del 1863 furono dati soltanto 82.000 voti per i candidati del governo, e 153.000 per i candidati dell’opposizione, mentre alle elezioni del 1857 il governo aveva avuto dalla sua ancora 111.000 elettori, e la opposizione soltanto 96.000. Si ritenne generalmente che il cambiamento fosse da attribuire solo in piccola parte allo spostamento della borghesia, ma soprattutto al mutato atteggiamento della classe operaia, che, proprio mentre il falso Bonaparte civettava con i suoi interessi, volle affermare la propria indipendenza, anche se per il momento continuava a marciare sotto la bandiera del radicalismo borghese. Questa interpretazione fu confermata quando, per alcune elezioni suppletive che ebbero luogo a Parigi nel 1864, sessanta operai presentarono come loro candidato l’in-cisore Tolain, e pubblicarono un manifesto nel quale annunciavano il risveglio del socialismo. Esso diceva che i socialisti avevano senza dubbio imparato dalle esperienze del passato; che nel 1848 gli operai non erano ancora arrivati a un programma chiaro; che avevano seguito questa o quella teoria sociale più per istinto che per riflessione. Ora essi si tenevano lontani da esagerazioni utopistiche e miravano a riforme sociali. Di queste riforme Tolain chiedeva libertà di stampa e di associazione, abolizione del divieto di coalizione, istruzione obbligatoria e gratuita e soppressione del bilancio del culto. Ma Tolain non riuscì a raccogliere che qualche centinaio di voti. Proudhon, che pure era d’accordo sul contenuto del manifesto, era però contrario alla partecipazione alle elezioni, perché gli pareva che deporre le schede bianche fosse una protesta più energica contro l’Impero; per i blanquisti il manifesto era troppo moderato, e la borghesia, nelle sue sfumature liberali e radicali, a parte singole eccezioni, si scagliò con scherno e disprezzo contro la partecipazione indipendente degli operai, nonostante che il programma elettorale di Tolain non le desse ancora proprio nessun motivo d’inquietudine. La cosa aveva un aspetto molto simile alla situazione tedesca contemporanea. Incoraggiato da ciò, Bonaparte osò compiere un altro passo avanti: con una legge del maggio 1864, senza abolire il divieto delle associazioni professionali (ciò che avvenne solo quattro anni dopo), soppresse i paragrafi del Code penai che proibivano la coalizione degli operai per il miglioramento delle condizioni di lavoro.
In Inghilterra i divieti di coalizione erano già stati aboliti nel 1825, ma l’esistenza delle Trade Unions non era per questo garantita, né di diritto né di fatto, e la massa dei loro membri era priva del diritto di voto politico, che avrebbe permesso loro di eliminare gli ostacoli legali che rendevano diffìcile la loro lotta per un più alto livello di vita. L’ascesa del capitalismo continentale, che troncò un numero enorme di esistenze, creò loro il pericolo di una sporca concorrenza. Ogni volta che gli operai inglesi muovevano all’attacco per l’aumento dei salari o per la riduzione delle ore di lavoro, i capitalisti minacciavano di importare operai francesi, belgi, tedeschi o di altri paesi. Poi una scossa particolarmente efficace fu provocata dalla guerra civile americana: essa causò una crisi del cotone che ridusse alla più grave miseria gli operai dell’industria tessile inglese.
Allora le Trade Unions furono scosse dalla loro esistenza contemplativa. Sorse un nuovo unionismo che era rappresentato specialmente da provati funzionari delle maggiori Trade Unions: Allan dei meccanici, Applegarth dei carpentieri, Lucraft dei falegnami, Cremer dei muratori, Odger dei calzolai ed altri. Questi uomini riconobbero la necessità della lotta politica anche per i sindacati. Essi si posero come obiettivo una riforma elettorale; furono le forze motrici di un gigantesco meeting che ebbe luogo in St. Martin’s Hall, sotto la presidenza del radicale Bright, ed elevò una tempesta di proteste contro il piano di Palmerston per un intervento nella guerra civile americana a favore degli Stati schiavisti dei Sud, e preparò una festosa accoglienza a Garibaldi quando egli, nella pri-mavera del 1864, si recò in visita a Londra.
Il risveglio politico della classe operaia inglese e francese ridestò l’idea internazionale. Già in occasione dell’Esposizione Mondiale del 1862 aveva avuto luogo una « festa dell’affratellamento » fra i delegati francesi e gli operai inglesi. Il legame si strinse ancora di più in seguito alla sollevazione polacca del 1863.
La causa polacca era sempre stata popolaris-sima fra gli elementi rivoluzionari dei popoli civili dell’Europa occidentale; l’oppressione e lo smembramento della Polonia faceva delle tre poten-ze orientali una forza reazionaria; la restaurazione della Polonia era un colpo al cuore per l’egemonia russa sull’Europa. I Fraternal Democrats in passato avevano celebrato regolarmente gli anniversari della rivoluzione polacca del 1830, con entusiastiche manifestazioni a favore della nazione polacca, ma anche col sentimento che la restaurazione di una Polonia libera e democratica era un presupposto necessario per l’emancipazione del proletariato. Così fu anche nel 1863. Al meeting polacco di Londra, al quale gli operai francesi avevano mandato i loro rappresentanti, il motivo sociale fu sentito in maniera acuta, e costituì anche la nota fondamentale di un indirizzo rivolto da un comitato di operai inglesi, sotto la presidenza di Odger, agli operai francesi per ringraziarli della loro partecipazione al meeting polacco. In particolare l’indirizzo sottolineava che la sporca concorrenza che il capitale inglese faceva al proletariato inglese mediante l’importazione di operai stranieri era possibile soltanto perché mancava un collegamento sistematico fra le classi operaie di tutti i paesi. Esso fu tradotto in francese dal professor Beesly (uno studioso, per più aspetti benemerito della causa operaia, che insegnava storia all’Università di Londra) e suscitò un movimento vivace nelle fabbriche di Parigi, che culminò nella decisione di inviare una deputazione a Londra, a rispondere personalmente. Per accogliere la delegazione il comitato inglese convocò per il 28 settembre 1864 un meeting in St. Martin’s Hall, che si riunì sotto la presidenza di Beesly ed era affollato da soffocare. Tolain lesse l’indirizzo francese di risposta, che prendeva le mosse dalla sollevazione polacca (« Ancora una volta la Polonia è stata soffocata col sangue dei suoi figli, e noi siamo rimasti spettatori impotenti » ) per chiedere poi che fosse ascoltata la voce del popolo in tutte le grandi questioni politiche e sociali. Seguitava affermando che il potere dispotico del capitale doveva essere spezzato; che la divisione del lavoro aveva fatto dell’uomo uno strumento meccanico, e che il libero commercio senza la solidarietà degli operai avrebbe portato una servitù industriale più crudele e nefasta della servitù infranta nei giorni della Grande Rivoluzione. Infine che gli operai di tutti i paesi dovevano unirsi per opporre una barriera insuperabile a un sistema nefasto.
Dopo un vivace dibattito, durante il quale Eccarius parlò per i tedeschi, su proposta del tradunionista Wheeler il meeting decise di nominare un comitato con facoltà di aumentare il numero dei propri membri e di stendere gli statuti per una associazione internazionale che avrebbero avuto un valore provvisorio, finché un congresso internazionale, da tenersi in Belgio l’anno seguente, non avesse preso delle decisioni definitive in proposito. Il comitato fu eletto: era composto di numerosi tradunio-nisti e rappresentanti stranieri della causa operaia. Fra i rappresentanti tedeschi (il resoconto giornalistico lo nomina per ultimo) era Karl Marx.
Fino allora Marx non aveva preso parte attiva al movimento. Era stato invitato dal francese Le Lubez a intervenire in rappresentanza degli operai tedeschi, e in particolare a designare un operaio tedesco quale oratore. Egli propose Eccarius, mentre per parte sua assistè dalla tribuna senza prender la parola.
Marx aveva un concetto abbastanza alto del suo lavoro scientifico, per anteporlo a qualsiasi affaccendarsi per creare associazioni che apparisse fin dall’inizio privo di prospettive; ma lo rimandava volentieri quando c’era da fare del lavoro utile per il proletariato. Questa volta capì che erano in gioco delle « forze effettive». Scrisse a Weydemeyer (e in termini simili ad altri amici): «Il Comitato internazionale degli operai, di recente costituito, non è privo di importanza. I suoi membri inglesi sono per lo più capi delle Trade Unions, quindi i veri sovrani londinesi degli operai, le stesse persone che prepararono la grandiosa accoglienza a Garibaldi e che col gigantesco meeting di St. James Hall (presieduto da Bright) impedirono a Palmerston di dichiarare guerra agli Stati Uniti, come era sul punto di fare. I membri francesi sono insignificanti, ma sono organi diretti dell’avanguardia operaia di Parigi. Esiste pure un collegamento con le associazioni italiane, che di recente hanno tenuto il loro congresso a Napoli. Quantunque io abbia rifiutato per anni sistematicamente di partecipare a qualsiasi organizzazione , questa volta ho accettato perché si tratta di una faccenda in cui si può esercitare un’azione considerevole ». Marx vedeva che « evidentemente era in corso una rinascita delle classi lavoratrici », e ritenne suo primo dovere aprire loro nuove strade.
Si aggiunse il caso fortunato che per circostanze esterne la direzione ideologica toccò a lui. Il comitato eletto si integrò con l’aggiunta di nuove forze: era costituito da una cinquantina di membri, per metà operai inglesi. Dopo gli inglesi, la più forte era la Germania, rappresentata da una decina di membri che, come Marx, Eccarius, Lessner, Lochner, Pfàn=der, avevano già appartenuto alla Lega dei Comunisti. La Francia aveva nove rappresentanti, l’Italia sei, la Polonia e la Svizzera due ciascuna. Dopo la sua costituzione il comitato nominò un sottocomitato che doveva redigere il programma e gli statuti.
In questo sottocomitato fu eletto anche Marx ma, indisposto o informato troppo tardi, fu impedito più volte di partecipare alle deliberazioni. Nel frattempo il maggiore Wolff, segretario privato di Mazzini, l’inglese Weston e il francese Le Lubez avevano provato inutilmente ad assolvere il compito che era stato assegnato al comitato. Per quanto a quel tempo fosse popolare fra gli operai inglesi, Mazzini conosceva troppo poco il movimento operaio moderno per imporsi col suo programma ad esperti tradunionisti. La lotta di classe del proletariato gli era incomprensibile, e perciò invisa. Il suo programma arrivava tutt’al più a una fraseologia socialistica che ormai il proletariato, dopo il ’60, aveva superato da tempo. Anche i suoi statuti traevano parimente la loro origine dallo spirito di un tempo passato: redatti alla maniera rigidamente centralistica delle società di cospirazione politica, non tenevano conto in particolare delle condizioni di vita delle Trade Unions, e in generale delle condizioni di vita di una lega internazionale degli operai che non doveva creare un nuovo movimento, ma soltanto collegare il movimento di classe del proletariato che già esisteva in diversi paesi ma era ancora disperso. Anche i programmi proposti da Le Lubez e Weston non andavano al di là di un generico vaniloquio.
La cosa era quindi assai imbrogliata quando Marx la prese nelle sue mani. Egli decise che « possibilmente non dovesse restare di quella roba una sola riga »[1], e per sbarazzarsene del tutto redasse un Indirizzo alle classi lavoratrici, specie di rassegna delle loro vicende dopo il 1848 (che non era stato previsto nel meeting di St. Martin’s Hall) per poi stendere gli statuti nella forma più chiara e più breve. Il sottocomitato accettò subito le sue proposte, inserendo però nell’introduzione degli statuti qualche frase su « diritto, dovere, verità, morale e giustizia », che però Marx seppe collocare, come scrisse a Engels[2], in modo che non arrecassero nessun danno. Di poi anche il comitato generale accettò Indirizzo e sta-tuti all’unanimità e con grande entusiasmo.
Dell’Indirizzo inaugurale[3] disse una volta Beesly che era probabilmente l’esposizione più potente e precisa della causa operaia contro la classe media che fosse mai stata scritta, concentrata in una dozzina di paginette. L’Indirizzo cominciava col sottolineare l’importante dato di fatto che la miseria della classe operaia non era diminuita dal 1848 al 1864, sebbene questo periodo non avesse avuto l’uguale per lo sviluppo dell’industria e per l’incremento del commercio. Dimostrava questo fatto contrapponendo, con prove documentate, da una parte la spaventosa statistica dei libri azzurri ufficiali sulla miseria del proletariato inglese, dall’altra le cifre che il Cancelliere dello Scacchiere Gladstone aveva prodotto, nel suo discorso sul bilancio, sull’incremento di potenza e ricchezza, che si sarebbe verificato in quello spazio di tempo, incremento inebriante ma in tutto e per tutto limitato alle classi possidenti. L’Indirizzo svelava questo contrasto riferendosi alle condizioni inglesi, perché l’Inghilterra marciava alla testa dell’Europa commerciale e industriale, ma aggiungeva che esso esisteva, con altre sfumature locali e su scala un poco ridotta, in tutti i paesi del continente dove si sviluppava la grande industria.
L’incremento inebriante di potenza e ricchezza si limitava dovunque alle classi possidenti, se si eccettua un piccolo numero di operai, come in Inghilterra, che aveva avuto un certo aumento di salario, ma compensato di nuovo da un generale aumento dei prezzi. « Dappertutto la grande massa delle classi lavoratrici è caduta più in basso, almeno nella stessa misura in cui le classi che stanno sopra di esse sono salite nella scala sociale. In tutti i paesi d’Europa è ora diventata verità dimostrabile a ogni intelletto libero da pregiudizi, che viene contestata solo da coloro che hanno interesse a rinchiudere gli altri in una felicità illusoria, che nessun perfezionamento delle macchine, nessuna applicazione della scienza alla produzione, nessun progresso dei mezzi di comunicazione, nessuna nuova colonia, nessuna emigrazione, nessuna apertura di nuovi mercati, nessun libero scambio, né tutte queste cose prese insieme elimineranno la miseria delle masse lavoratrici; che, anzi, sulla falsa base presente, ogni nuovo sviluppo delle forze produttive del lavoro inevitabilmente deve tendere a rendere più profondi i contrasti sociali, e più acuti gli anta-gonismi sociali. La morte per inanizione in questa inebriante epoca di progresso economico si è quasi elevata, nella metropoli dell’Impero britannico, al grado di una istituzione permanente. Questa epoca è contrassegnata, negli annali del mondo, dal ritorno sempre più frequente, dalla estensione sempre più larga, dagli effetti sempre più mortali di quella peste sociale che si chiama crisi economica e industriale»[4].
L’Indirizzo accennava poi alla sconfitta subita dal movimento operaio negli anni fra il ’50 e il ’60 e rilevava che questo periodo in compenso aveva avuto anche degli aspetti favorevoli. Erano messi in speciale rilievo due fatti importanti. Prima di tutto la giornata legale di dieci ore con le sue conseguenze così salutari per il proletariato inglese. La lotta per la limitazione legale del tempo di lavoro toccava direttamente la grave controversia tra il cieco dominio delle leggi dell’offerta e della domanda, che costituiscono l’economia politica della borghesia, e la produzione sociale regolata dalla previdenza sociale[5], che è l’economia politica della classe operaia. « Perciò la legge delle dieci ore non fu soltanto un grande successo pratico; fu la vittoria di un principio. Per la prima volta, alla chiara luce del giorno, l’economia politica della borghesia soggiaceva all’economia politica della classe operaia »[6].
Una vittoria ancora maggiore l’economia politica del proletariato riportò col movimento cooperativo, specialmente con le fabbriche cooperative create dagli sforzi di pochi lavoratori intrepidi non aiutati da nessuno.
« Il valore di questi grandi esperimenti sociali non può mai essere apprezzato abbastanza. Coi fatti, invece che con argomenti, queste cooperative hanno dimostrato che la produzione su grande scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna, è possibile senza l’esistenza di una classe di padroni che impieghi una classe di lavoratori; che i mezzi di lavoro non hanno bisogno, per dare i loro frutti, di essere monopolizzati come uno strumento di asservimento e di sfruttamento del lavoratore; e che il lavoro salariato, come il lavoro dello schiavo, come il lavoro del servo della gleba, è solo una forma transitoria e inferiore, destinata a sparire dinanzi al lavoro associato, che impugna i suoi strumenti con mano volenterosa, mente alacre e cuore lieto »[7]. Tuttavia il lavoro cooperativo, limitato all’angusta cerchia di tentativi occasionali, non può rompere il monopolio capitalistico. « Forse appunto per questa ragione è avvenuto che aristocratici pieni di buone intenzioni, filantropi borghesi chiacchieroni e persino economisti d’ingegno sottile hanno coperto improvvisamente di complimenti stucchevoli quello stesso sistema coopera-tivo, che invano avevano cercato di soffocare in germe deridendolo come utopia di sognatori e bollandolo come sacrilegio di socialisti »[8].
Soltanto lo sviluppo del lavoro cooperativo su scala nazionale — continuava l’Indirizzo — poteva salvare le masse; ma i signori della terra e del capitale utilizzeranno sempre i loro privilegi politici per perpetuare i loro monopoli economici. Perciò il grande compito della classe operaia è diventato la conquista del potere politico.
Gli operai sembravano aver compreso questo dovere, come dimostrava il loro simultaneo risveglio in Inghilterra, operaio. « La classe operaia possiede un elemento del successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza. L’esperienza del passato ha insegnato come il dispregio di quel legame fraterno, che dovrebbe esistere tra gli operai dei diversi paesi e spronarli a sostenersi gli uni con gli altri in tutte le loro lotte per l’emancipazione, venga punito inesorabilmente con la sconfitta comune dei loro sforzi incoerenti »[9]. Questa idea aveva spinto i partecipanti al meeting di St. Martin’s Hall a fondare l’Associazione Internazionale degli Operai.
Anche un’altra convinzione animava quest’assemblea: se l’emancipazione della classe operaia richiedeva la sua fraterna unione e cooperazione, come poteva essa adempiere questa grande missione sino a che una politica estera che perseguiva disegni criminosi puntava su pregiudizi nazionali, e profondeva in guerre di rapina il sangue e la ricchezza del popolo? « Non la saggezza della classe dominante, ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua delittuosa follia, fu ciò che salvò l’Europa occidentale dall’esser gettata nell’avventura di un’infame crociata per eternare e propagare la schiavitù sull’opposta riva dell’Oceano. Il plauso spudorato, la simpatia ipocrita o l’indifferenza idiota, con cui le classi superiori dell’Europa hanno veduto la fortezza montuosa del Caucaso essere preda della Russia e la eroica Polonia essere assassinata dalla Russia stessa… hanno insegnato alle classi lavoratrici che è loro dovere dominare anch’esse i misteri della politica internazionale, vigilare gli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi, all’occorrenza, con tutti i mezzi in loro potere, e che, ove siano nell’impossibilità di prevenire, è loro dovere unirsi, per smascherare simultaneamente questa attività, e per rivendicare come leggi supreme nei rapporti fra le nazioni le semplici leggi della morale e del diritto che dovrebbero regolare i rapporti fra privati. La lotta per una tale politica estera è una parte della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia»[10]. L’Indirizzo si chiudeva, come già il Manifesto comunista, con le parole : « Proletari di tutti i paesi, unitevi! ».
Gli Statuti cominciavano con dei «considerando» che si possono riassumere come segue: l’emancipazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa, e questa lotta non è una lotta per nuovi privilegi di classe, ma per abolire ogni dominio di classe; la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica; l’emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico; tutti gli sforzi per raggiungere questo fine sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici categorie di operai in ogni paese, e per l’assenza di una unione fraterna tra le classi operaie dei diversi paesi; l’emancipazione degli operai non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica di questi paesi[11]. A queste proposizioni chiare e acute erano poi aggiunti quei luoghi comuni morali sulla giustizia e. la verità, sui doveri e i diritti, che Marx accolse solo con riluttanza nel suo testo.
L’organizzazione dell’Associazione culminava in un Consiglio Generale che doveva essere composto da operai dei diversi paesi rappresentati nell’Associazione. Fino al primo congresso il comitato eletto in St. Martin’s Hall si assumeva le attribuzioni del Consiglio Generale. Esse consistevano nel fungere da collegamento fra le organizzazioni operaie dei diversi paesi, tenere costantemente informati gli operai di ogni paese sul movimento della loro classe in ogni altro paese, condurre ricerche statistiche sulle condizioni delle classi lavoratrici, far discutere in tutte le società operaie questioni d’interesse generale, suscitare un’azione unitaria e simultanea delle associazioni aderenti in caso di conflitti internazionali, pubblicare bollettini periodici, e altri compiti simili. Il Consiglio Generale veniva eletto dal congresso che si riuniva una volta l’anno. Il congresso fissava la sede del Consiglio Generale e il luogo e la data per il congresso successivo.
Il Consiglio Generale era autorizzato ad aggregarsi nuovi membri e in caso di necessità a spostare la sede del congresso, ma non a differire la data della sua convocazione. Le società operaie dei singoli paesi che aderivano all’Internazionale conservavano intatta la loro organizzazione. A nessuna associazione locale indipendente era impedito di aver rapporti diretti col Consiglio Generale, ma era richiesto, come condizione necessaria per l’efficace attività del Consiglio Generale, che le associazioni isolate dei singoli paesi si riunissero, per quanto possibile, in associazioni nazio-nali rappresentate da organi nazionali centrali[12].
Per quanto sia errato affermare che l’Internazionale fu l’invenzione di una « grande mente », la sua fortuna fu però ugualmente di aver trovato, al suo sorgere, una grande mente che indicandole la via giusta le risparmiò di avviarsi su strade sbagliate. Più di questo Marx non fece, né volle fare. La genialità incomparabile dell’Indirizzo e degli Statuti stava appunto nel fatto che essi si ricollegavano interamente allo stato presente delle cose e nello stesso tempo, come una volta disse giustamente Liebknecht, contenevano fino alle ultime conseguenze i princìpi del comunismo, non meno del Manifesto comunista.
Dal Manifesto essi non differivano soltanto per la forma : « occorre tempo », scrisse Marx ad Engels, «prima che il movimento ridestato consenta l’antica audacia di parola. Necessario fortiter in re, suaviter in modo»[13]. La cosa aveva uno scopo diverso. Ora importava fondere in un grande esercito tutto l’elemento operaio combattivo d’Europa e d’America, stabilire un programma che, secondo un’espressione di Engels, non chiudesse la porta alle Trade Unions inglesi, ai proudhoniani francesi, belgi, italiani, spagnoli, ai lassalliani tedeschi. Per la vittoria finale del socialismo scientifico, com’era impostato nel Manifesto comunista, Marx faceva assegnamento unicamente sullo sviluppo intellettuale della classe operaia, quale doveva risultare dalla sua azione unita.
Ben presto la sua attesa fu sottoposta a una dura prova : aveva appena cominciato il lavoro di propaganda per l’Internazionale, quando entrò in grave conflitto con quella classe operaia europea che prima di ogni altra avrebbe dovuto accettare i princìpi dell’Internazionale.

[1] Carteggio Marx=Engels, vol. IV cit., p. 248.
[2] Ibidem.
[3] Il testo dell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale degli Operai è in Marx=Engels, Il Partito e l’Internazionale, Edizioni Rinascita, Roma, 1948, pp. 105-114.
[4] Indirizzo inaugurale cit., p. 110.
[5] L’espressione adoperata da Marx non è « previdenza » (Fùrsorge), ma « previsione » sociale.
[6] Indirizzo inaugurale cit., p. 112.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Indirizzo inaugurale cit., p. 113.
[10] Ibid., pp. 113-4.
[11] Statuti generali dell’Associazione Internazionale degli Operai in Il Partito e l’Internazionale cit., pp. 114-5.
[12] Statuti generali cit., pp. 115-6.
[13] Carteggio Marx=Engels, vol. IV cit., p. 249.